Ciao.
Sono Roberto.
Solo per un momento, resta qui. Se puoi… Se vuoi. Prova a concederti un attimo di tregua al ritmo convulso del quotidiano. Osserva solamente, delicatamente: quell’albero, il crinale della collina, il prato in lontananza.
So già che in questo istante stanno cominciando i primi giochi della mente: forse stai pensando che quel ciliegio sta per fiorire, che quel profilo assomiglia ad uno che conosci… Se ti è possibile, lascia fluire questi pensieri e non affezionarti a nessuno di loro: quell’albero non è UN ciliegio ma è proprio quello e nientaltro che quello. Perché non esistono “I” ciliegi ma tanti alberi simili che danno frutti analoghi. Diamo un nome a ciò che cade sotto i nostri sensi per non sentirci sperduti in un universo talmente vasto da suscitare angoscia se non lo riduciamo ad una serie di esperienze ripetibili. La mente ha bisogno di realtà note per non generare paura…
Anche questo è uno strano gioco dei nostri pensieri: cosa dovrei temere se questo mondo non è una mia creazione e la natura ha provveduto a far evolvere organismi adeguati ad un ambiente in perenne equilibrio? Tutto quello che vedi, tocchi, ascolti è intrecciato. Danza un ritmo incredibilmente armonico.
Probabilmente ci siamo abituati a sentirci al di fuori – in posizione up – rispetto alla danza cosmica. E forse è proprio tutto il nostro pensare che ci estrania da una collocazione adeguata. Ma se quello che vedi, ascolti, tocchi non lo hai creato tu, è possibile che niente di tutto questo ti appartenga.
Sento la prima obiezione: io ho piantato quell’albero, dunque è mio!
Beh, quella pianta cresce, fiorisce, mette su foglie indifferente alla proprietà. Crescerebbe e darebbe gli stessi frutti anche se l’avesse messa a dimora un esquimese o un elefante. Quella pianta non sa di essere “DI” qualcuno. Quella pianta segue un progetto arcano, un’intelligenza che trascende quella del proprietario.
Quell’albero, quel filo d’erba, quella goccia d’acqua, quella rondine non sono generati dal nostro volere. Possiamo manipolare la vita, ma non possiamo estrarla dal nulla! E’ un seme – un insignificante seme – un uovo, una nuvola che origina tutto ciò che poi io chiamo “MIO”.
Allora il “padrone” del prato (continueremo a chiamarlo così) potrebbe concludere: mi hai stufato. Adesso ti dimostro che l’albero è mio. Prendo la motosega e lo abbatto. Io sono padrone della sua vita, dunque posso farlo morire!”
E questo sarà purtroppo vero: possiamo dare la morte. Ma non è affatto vero l’assunto contrario: se il “padrone del prato” fosse anche padrone della vita, potrebbe far risorgere l’albero; cosa che è, chiaramente, fuori della portata di tutti!
Tutti noi, in un certo senso, siamo padroni della morte, ma non siamo affatto padroni della vita. E’ un’illusione dura a lasciare. Che anzi si è andata acuendo in questo secolo di manipolazioni genetiche e di interventi chirurgici miracolosi.
Se fossimo depositari della vita, l’avremmo brevettata a nostra misura: magari sarebbe eterna, magari priva di rischi, o costantemente satura di felicità…
Credo che sia un difetto ottico questo; ma che pure ci attanaglia: non ci rendiamo conto di essere stati costruiti per essere felici. Chiamiamo felicità l’assenza di problemi, lo stato beota e ottuso di chi rifiuta ogni sfida. Penso invece che la felicità consista nel mantenere coscienza e rispetto di sé anche nella peggiore delle condizioni.
Viviamo in un eterno sonno – una trance ipnotica, la chiamerebbe Milton Erickson – da cui ci destiamo in rari momenti, quando la comprensione dell’artificiosità del nostro modello vitale fa capolino dalle nebbie delle preoccupazioni. Viviamo in un costante “come se”…
Viviamo “come se” fossimo eterni… Ci prepariamo in modo ossessivo al domani, dimenticando che non esiste niente di più aleatorio del domani – e nel contempo perdiamo di vista l’unica cosa che conta, l’unica condizione che esiste – l’OGGI.
Ti voglio raccontare una piccola storia: mi è capitato di incontrare una donna relativamente giovane che come comincia a parlare con me, si mette a piangere silenziosamente.
Ha avuto difficoltà a camminare fino alla poltrona, incespica un po’ nelle parole e mi guarda con aria smarrita. Penso: “Oh Dio, com’è depressa!”
Ma lei mi sorprende: “fino a dieci giorni fa ero la donna più forte che si possa immaginare. Avevo una soluzione per tutto e tutti. Ero abituata a controllare le circostanze e le persone. Poi dieci giorni fa mi è presa una crisi epilettica che è durata per circa un minuto e che mi ha lasciata completamente attonita. Ma come?… Io controllo il mondo e non sono più capace di controllare il mio corpo, il mio cervello… Allucinante. Mi sono giustamente spaventata e il medico, pur minimizzando, mi prescrive una TAC. Per scrupolo, dice.
Invece la TAC evidenzia la presenza di un tumore enorme in due siti inoperabili. Mi è caduto il mondo addosso, e adesso sono così: lenta, instabile, quasi incapace di parlare… Ma la cosa peggiore è che so che fino a quando non morirò, dovrò dipendere. Dipenderò da mio marito, dai miei genitori, dal personale sanitario… Io che me la sono sempre cavata per conto mio. Che anzi ho assistito un mare di gente (lei fa l’infermiera professionale, nel quotidiano), dovrò contare sulla benevolenza e sullo spirito di sacrificio di quelli che mi circondano… Che senso ha?”
Non è una domanda che lasci molto spazio a voli pindarici. Ma ho provato a darle una risposta col cuore piuttosto che con la mente. A mia volta molto partecipe, mi sono sentito di dirle: “L’unico senso che riesco a trovare è che dovevi fare l’esperienza di lasciarti andare. Hai guidato sempre tu, anche se eri stanca o avevi sonno o non volevi prendere il volante, hai sempre guidato ugualmente. Adesso stai per fare un passaggio che forse non hai mai considerato: dovrai lasciare la guida e farti portare. Potresti accorgerti che è proprio quello che ti serve, che non è poi così brutto lasciarsi andare. Farsi tenere. Farsi coccolare. Farsi accarezzare. Per tutto il tempo – che sia tanto o poco – che ti resta. Potresti accorgerti che non c’è niente di male ad uscire dal ruolo di quella che riesce sempre, e che talvolta abbiamo proprio bisogno di tornare bambini di fronte agli eventi ineludibili per farci scaldare da chi in quel momento ha un po’ di fuoco dentro al suo camino”.
Piangendo, mi ha ringraziato come se le avessi dato una terapia straordinaria. Al che mi sono sentito di aggiungere: “a te ha fatto piacere sentirti utile agli altri. Forse un altro dei motivi di tutto quello che ti capita, consiste nel permettere agli altri di sentire lo stesso piacere nell’essere utili a te. Lascia quel volante. Lascia che guidi un altro. Lasciati portare dolcemente. Lascia andare…”
Capisci cosa intendo quando parlo di illusione? L’illusione dell’eternità. E poi l’illusione dell’amore che non cede mai: se sarò abbastanza bravo – ordinato, intelligente, prestazionale, puntuale – lui, lei, loro non potranno fare a meno di me. Mi ameranno.
Salvo poi accorgersi che non funziona così, che si può essere la persona più integra, più interessante, più gratificante – ma che questo non garantirà proprio nulla. Nessuno viene amato per quello che fa. Ma qualcuno – un genitore, un insegnante, io stesso – in perfetta buona fede mi ha fatto credere che se riuscirò a fare il compito di matematica, se sarò buono con mio fratello, se saprò fingere l’interesse che non provo, capiterà l’evento straordinario: tutti si accorgeranno di quale persona eccezionale io sia. E allora la mia strada sarà solo in discesa.
Poi quando, nonostante tutti i miei sforzi, l’amore agognato non arriva, ecco che cominciano puntuali i sensi di colpa: quelli che provo perché non ho fatto abbastanza, e quelli che induco in chi non si è innamorato di me. Che servono a cosa? Non producono altro che sofferenza. Da cui il mal d’amore di cui sono piene le nostre canzoni sentimentali.
Ognuno di noi vive in un sempiterno “come se”: come se fossi eterno, come se fossi sfigato, come se fossi l’unica meraviglia del creato, come se fossi monco, come se fossi… Io posso essere tutto questo, non solo una di queste definizioni. E’ proprio questa la nevrosi di cui soffriamo: ci crediamo solo una parte, mentre in realtà siamo una molteplicità.
Ma non esiste ragione – né etica né pratica – per cui un “come se” sia migliore di un altro “come se”. E se ho sempre vissuto come se fossi superficiale non c’è motivo per cui non possa vivere come se fossi intenso. Se sono vissuto come se fossi egoista, posso sostituire questa abitudine con l’attenzione. Se il mio come se è la disperazione, posso imparare anche ad essere leggero. Se mi sono sempre dipinto come un orso, posso spingere sulla mia amichevolezza… Posso innamorarmi delle mie parti rimosse.
Ogni strada terapeutica è solo uno strumento. Se il mio sonno ipnotico mi spinge a non apprezzare delle parti che sono pur sempre dentro di me, un risveglio ipnotico forse mi metterà nella condizione di accettare le mie imperfezioni come una possibilità, una chance.
L’ipnosi è uno stato della coscienza diverso da quello abituale. Invece dell’attenzione al fuori predilige l’attenzione al dentro. Ma è proprio dentro che probabilmente esistono le risorse che vado cercando da sempre: l’autostima, il coraggio, la tenerezza, l’amore. Non occorre andare lontano, non c’è nessun guru. O meglio, ce n’è già uno a portata di mano che sa già tutto quello che c’è da sapere.
Guardati dall’illusione che pochi giorni possano esaurire tutte le domande, tutte le contraddizioni. Possono essere solo un inizio che può aiutarti ad aprire una finestra sul mondo spirituale che stai cercando da sempre.
Voglio mettere lì due righe che ho scritto qualche tempo fa:
«Come fate a sapere che si tratta di pene d’amore?»
Mio nonno lo guardò e silenziosamente sorrise ancora una volta. François, per la prima volta, ebbe chiara la sensazione che quel vecchio sapesse esattamente cosa stava facendo e che forse la sua ricerca era arrivata alla fine.
«La morte non ha mai restituito nessuno. Ma la morte non ruba l’amore. L’amore resta. Tuttavia, finché non smetti di litigare con la morte per l’amore che non ti è stato sottratto non potrai passare oltre.»
«Ma la morte mi ha rubato l’amore. Mia moglie…»
«La morte porta via gusci vuoti, sgombra la tavola dalle ostriche di cui ti sei nutrito. Tu hai mangiato tutto quello che potevi. Pure non ti rendi conto di essere sazio. Sei ingordo!»
E’ l’ingordigia del tutto e subito il peggiore nemico di ogni ricerca spirituale. Ma sappi che il percorso, una volta iniziato, non lascia più spazio alla pigrizia mentale.
Buona strada.
RoGi